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Un lavoro con contratto a chiamata

Ci sediamo guardandoci e fingendo reciproca stima. Solo perché entrambe siamo femmine diamo per scontata un’umana decenza che ovviamente non c’è. 

Il motivo per cui sto guardando questa persona che non mi è amica è semplice, voglio che sganci i miei soldi. E vorrei dirglielo così, in modo da evitarci frasi di circostanza “ti sono grata per, sei molto brava, ti ringrazio, l’opportunità splendida”. 

Le luci al neon sono fatte apposta per rendere la gente inconsapevole di quanto tempo spende in questo buco di merda. Mi sento in colpa per rendergli questi attimi fin troppo piacevoli. Vorrei urlare a tutti, andatevene. Ma non posso.

In questo lavoro sono sorprendentemente brava. Mi sento in colpa. Vendo cose che da necessarie diventano superflue. Fatte con materiali di merda da persone che vivono in buchi schifosi e che da lì non si sposteranno mai. Ma io devo pagarmi l’università. Lo ripeto a me stessa, un mantra per lavarmi la coscienza.

Alzo lo sguardo e la guardo, non riesco neanche a provare pietà. Una donna che ha deciso di essere lo stereotipo di se stessa. Mi fa ridere il fatto che si creda un imprenditore, tipo un maschio. Non lo sarà mai. Mi fa ridere che creda veramente di essere un mio salvatore, mi fa tristezza che un po’ lo sia. La guardo con lo stesso sguardo di pena che riservi a quel cugino che ti fa schifo, ma è sempre famiglia.

Provo verso di lei una pena così forte che si trasforma in scherno, e divento l’ennesima sua bulla, solo che questa volta non posso farle niente perché lei mi dovrebbe pagare. Mi fa schifo, come il suo stupido negozietto di merda.

Giuro che mi ero preparata tutto un monologo in testa in cui, con gentilezza e calma, le dicevo di sganciare i miei soldi, ma le luci al neon, l’aria viziata e il via vai di persone mi ha innervosito così tanto che mi scoppiava la testa. E non ce l’ho fatta. 

Questa tipa, ormai non è più la mia capa, non serve neanche che ce lo diciamo. L’abbiamo capito entrambe e lo dimostriamo a forza di sorrisi striminziti e frasi più o meno accusatorie, dette con voce fin troppo acuta e bisbigliata. Tipo delle ladre. 

Questa tipa mi guarda, e io capisco che prova verso di me un sentimento di pena vera. Le faccio pena come ti fanno pena i cani zoppi, quelli che vedi e dopo non ci pensi più, e in quel sentimento di pena ci ho visto tutta la cattiveria che non poteva esprimere. Che forse non ha mai espresso perché era troppo impegnata a far finta di essere un capo very very cool. Come le imponeva l’azienda. 

E in quel momento ho desiderato così tanto essere di fatto la sua ennesima bulla, ricordandole che la sua fase imprenditoriale non cancellerà anni e anni di sfiga che non ha mai superato. Maledicendo lei e tutta la sua famiglia intera. Obbligandola a guardare il suo piccolo negozietto, teatrino ridicolo rispetto al cinema che aveva montato il fratello, inetto però maschio. 

Volevo rinfacciarle i torti che avevo subito, volevo che si rendesse conto che abbracciava lo stesso sistema che l’aveva resa quello che era, una stronza che non mi dava i miei cazzo di soldi.

Quanto sarebbe stato bello. Invece lei si è alzata, e ancora prima che iniziassi a formulare il mio primo vaffanculo è andata via. Forte delle sue convinzioni.

Mi ha spezzata.

Vorrei dire che questa esperienza mi ha insegnato tanto, che le sono grata, invece non è così. Ricordo solo il mio continuo bisogno di odiarla, per ricordare a me stessa di non diventare mai come lei. La rivedo continuamente, la rivedo anche in persone che non sono lei. La rivedo e provo rabbia. E questo sentimento continuo è la prova reale che ha vinto. 

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